Ismail Kadaré: L’Albania di Hoxha? Un paese ermafrodita


Ismail Kadaré: L’Albania di Hoxha? Un paese ermafrodita
fonte Intervista di Maria Serena Palieri - L'Unità

5 luglio 2008


Ci sono immagini che, terminata la lettura di un libro, te ne restano in mente come emblemi. Nel Successore, l’ultimo romanzo di Ismail Kadaré, è quella della «Guida» - ovvero Enver Hoxha, il dittatore che tenne in suo potere l’Albania per quarant’anni, dalla fine della guerra alla morte, avvenuta nel 1985 - che fa ingresso all’inaugurazione della nuova casa del suo delfino. Col suo fasto, la dimora sembra prefigurare il passaggio di poteri tra i due uomini, che dovrebbe avvenire alla morte della Guida.
Ma ecco l’anziano dittatore, ormai quasi cieco, in lungo mantello nero, che gioca con l’interruttore modernissimo che spicca su una parete del salone: da un lato è luce sempre più piena, ma dall’altro, clic, la stanza precipita nel buio. Con lo stesso ludico arbitrio, il «Prijs», la Guida, deciderà della vita del suo fedelissimo: gli succederà davvero o sarà lui a morire prima, andandosene in circostanze misteriose?

Terminato nel 2004, Il successore è la seconda parte d’un dittico che Kadaré avviò tra il 1984 e il 1986 con il romanzo La figlia di Agamennone. Sulla falsariga della tragedia eschilea dell’Atride, di sua figlia Ifigenia e della moglie Clitennestra, ecco la vicenda di una fanciulla, Suzana, immolata sull’altare della ragion di Stato: non potrà sposare l’amante cui - con innocente fame di eros - ha concesso la propria verginità, perché andrà a nozze con un altro, in apparenza più consono alla dimensione di potere teocratico cui è vocato suo padre; ma nel secondo volume si scopre che il promesso sposo è figlio di «nobilastri», accusa infamante nell’Albania comunista, da qui la caduta in rovina del Successore e della sua famiglia.
Il primo libro, racconta nella postfazione Claude Durand, editore di Fayard, arrivò in Francia, da Tirana dove lui si era appositamente recato, dissimulato tra le sue carte, insieme con un altro romanzo, L’Ombre, con L’envol du migrateur e delle raccolte di versi. Depositati alla Banque de la Cité, gli scritti fungevano da assicurazione sulla memoria: Fayard aveva l’incarico di tradurli e pubblicarli se Ismail Kadaré fosse morto, magari in modo «accidentale».

Il dittico è il più spietato ed esplicito atto d’accusa che lo scrittore di Gjirokastra abbia mosso al regime di Hoxha - la monarchia comunista che aveva trasformato l’Albania, scrive, in un «paese ermafrodita» - senza più i veli dell’allusione utilizzati altrove, per esempio nel Palazzo dei sogni. Dunque, era lo scudo da utilizzare se il regime avesse tentato, post-mortem, di manipolare la sua memoria. Kafkiano (per una volta l’aggettivo non è un abuso), cupamente magnifico, di una potenza, a tratti, quasi intollerabile, il dittico, - specie nel secondo romanzo - certifica di nuovo la grandezza dello scrittore del Generale dell’armata morta, più volte candidato al Nobel. Mentre, in contemporanea, escono da noi anche due suoi saggi. Uno su Eschilo, l’altro su Dante. Quest’ultimo con una tesi assai interessante: che l’Alighieri, col suo Inferno, abbia prefigurato il mondo fino a oggi, un mondo, il nostro, «dantesco» nella labirintica claustrofobia delle sue metropoli.

«La figlia di Agamennone» e «Il Successore» è un dittico che merita d’essere definito non un romanzo, ma «il» romanzo, del totalitarismo. Cos’è, signor Kadaré, il totalitarismo?
«È un forma di potere ben conosciuta nel mondo, che si è evoluta per millenni, ma i cui dati sono ricorrenti. È un potere totale che non sopporta falle. Il complesso del totalitarismo, la sua malattia mortale, è che la prima falla che si apre in esso ne determina la fine. Perciò non sopporta incrinature».

L’idea corrente è che sia stato il Novecento a inventare i totalitarismi, cioè i fascismi e il comunismo. Quali ne sono stati, prima, i prototipi?
«Il sistema di potere degli Egizi, per esempio. I Greci, loro, ne hanno scritto, la tragedia greca ne parla, ma essa riportava ciò che avveniva nel mondo intorno. Perché la “tirannia” greca era piuttosto un’oligarchia, di tiranni ce ne furono trenta, e questo cambia parecchio. Pensi se ci fossero stati trenta Stalin o trenta Mussolini...».

Però la memoria del totalitarismo, quel controllo che esso esercitava fino nel profondo delle coscienze, sembra scomparsa nel sentire di chi, oggi, persone comuni e non intellettuali, arriva qui dai paesi dell’Est Europa. Russi, romeni, albanesi, raccontano quel passato con nostalgia per il modello di giustizia sociale al più lamentandone la mancanza di libertà. Come mai la memoria del totalitarismo sfuma così facilmente?
«La macchina dell’oblio non è assurda, è necessaria. Senza l’oblio non potremmo avere memoria. Ma a volte si dimentica troppo. La macchina perde colpi, funziona male».

Si dice «comunismo», al singolare. In realtà ciascuno aveva il proprio. Quello albanese quali caratteristiche aveva?
«Era il peggiore. O meglio, il peggiore dopo quello cambogiano e quello cinese. Subito dopo ecco il nostro e quello romeno. Era un mosaico di due fasi, quella stalinista e quella post-stalinista. Il comunismo asiatico era più duro, lì la persecuzione di scrittori e intellettuali è arrivata a livelli inimmaginabili, la Rivoluzione culturale cinese è stata, in questo senso, la più grande ecatombe della storia, però il comunismo cinese non è stato ancora studiato bene».

Forse perché la Repubblica Popolare esiste ancora?
«Anche perché in Occidente c’erano dei maîtres-à-penser che, la Cina, la sostenevano».

Rispetto a questo scenario, lei ritiene di aver sperimentato, in Albania, maggiore libertà?
«Nel 1980 se non altro ho potuto scrivere un romanzo di 600 pagine, Il concerto, dove raccontavo un’ecatombe di intellettuali e la morte che correva dentro la cupola del potere. Facevo un paragone tra Macbeth che, nella tragedia di Shakespeare, uccide il re, e la Cina dov’era stato il re, Mao Tse Tung, ad aver fatto uccidere il candidato alla successione Lin Piao. Scrivevo nomi e cognomi. Finii il romanzo mentre Enver Hoxha liquidava, lui, il suo delfino, Mehmet Shehu. Hoxha lo ebbe in visione e il romanzo non uscì fino alla sua morte. Ma insomma, avevo potuto scriverlo».

Lei ha lasciato l’Albania nel 1990, cinque anni dopo la morte di Hoxha. Come mai non l’aveva fatto prima? E lì di quale statuto godeva? Viveva del suo scrivere? Era amato o messo al bando?
«Lasciare una dittatura è difficile, c’era il rischio di rappresaglie per la mia famiglia. In Albania ero molto amato dai progressisti, studenti e professori, ma anche gente semplice, ed ero odiato dai militanti fanatici del regime e tenuto d’occhio dalla polizia segreta. Il mio status, dopo il 1970, era davvero strano, perché in quell’anno cominciarono a tradurre le mie opere in una quantità di lingue, e così ero amato sia in patria, nel paese che era il nemico numero uno dell’Occidente, che nell’Occidente stesso. Ero un paradosso, ero “lo” scrittore di un paese stalinista amato all’Ovest. Sapevo di avere due tipi di lettori, gli albanesi indottrinati e i lettori di là, internazionali, liberi. E, sì, vivevo del mio scrivere».

In contemporanea con la seconda parte del dittico romanzesco escono in Italia due suoi saggi, «Dante, l’inevitabile», per Fandango Libri, ed «Eschilo, questo grande perdente», per un’etichetta neonata, Controluce. Il richiamo alla tragedia classica è, in questi due romanzi, esplicito fin dal titolo del primo. E l’aggettivo «dantesco» descrive il cupo inferno in cui si erge la figura del «Prijs», la Guida, il dittatore. Quale ruolo hanno avuto i Greci, da un lato, e Dante, nella sua formazione?
«Un’influenza profonda, costituiscono il sommo dell’arte. È questo che, nei saggi, ho cercato di esprimere. Che il testo su Dante appaia ora in Italia è un piacere, è un onore».

La vicenda che lei narra nei due romanzi è calcata sull’«Orestea». Ma ciò che il Successore/Agamennone immola per far carriera non è il semplice corpo di sua figlia, Suzana/Ifigenia. È, più in profondità, la sua sessualità. È al suo eros che la ragazza deve rinunciare. Perché ha circoscritto il sacrificio di Suzana a questa sfera e non ha parlato invece d’amore, di cuore, di sentimenti?
«Volevo dare al sacrificio una connotazione “genetica”, qualcosa che parlasse della possibilità di cambiare la natura umana in profondità. E accentuare questo lato dell’amore: il totalitarismo riduce l’amore, come tutte le passioni, a uno stato molto povero, primitivo».
Dopo il crollo del regime lei è potuto tornare in Albania.

L’ha fatto subito? E oggi com’è il paese, rispetto al passato?
«Non è un paese né ricco né felice. Io, qui, sono tornato subito, appena ho potuto, me l’ero ripromesso e ho mantenuto la parola. Trascorro metà dell’anno vicino a Durazzo, sul mare, in una località il cui nome è arcaico e significa “la montagna dell’uomo”. L’Albania oggi potrebbe essere felice, per via della libertà conquistata. Ma pretende di più. E se lo merita, io credo».